Padre Francesco Milone

Padre Francesco Milone
Viù (Torino), 1927 - Milano, 1990

Appartenente all'ordine dei Padri Bianchi, fu missionario in Africa. Rientrato in Italia nel 1959, a partire dal finire del 1986 e fino alla sua prematura morte, compose varie poesie nel patois francoprovenzale di Viù.

Biografia

Francesco Milone nacque nel comune montano di Viù (Torino) 1'8 settembre 1927. Dopo gli studi nel seminario di Giaveno (Torino) entrò nel noviziato della Società dei Missionari d'Africa, detti Padri Bianchi per il loro abito bianco, a Gattinara (Vercelli). Ricevette l'abito il 26 settembre 1944. Successivamente frequentò per tre anni gli studi di filosofia e teologia a Parella (Torino). Nel settembre 1947 venne inviato al noviziato di Maison-Carrèe in Algeria. Pronunciò i voti a Cartagine in Tunisia il 7 aprile 1952 e il 28 giugno dello stesso anno a Thibar fu ordinato sacerdote. Ottenne di partire in missione e fu destinato al Ruanda. Raggiunse Buhambe (Byumba) nel luglio 1953 e qui diresse la scuola di falegnameria e il convitto dei bambini delle elementari. Dal settembre 1955 fu economo del piccolo seminario di Kabgayi. In Ruanda svolse sei anni di missione, fino all'ottobre 1959, quando per problemi di salute rientrò in Italia. Fu nominato economo del seminario di Treviglio (Bergamo). Nel settembre 1964 si trasferì nel seminario di Parella (Torino) e successivamente nel castello di Albiano d'Ivrea dove rimase fino al 1968, quando i Padri Bianchi aprirono una nuova Casa a Ciriè (Torino). Padre Milone, fu nominato superiore.
Quando, dopo dodici anni, i superiori decisero di chiudere la Casa di Ciriè, pensò di lasciare l'Istituto e continuare il ministero sacerdotale in una parrocchia. Poi, per obbedienza, accettò l'incarico di economo provinciale a Treviglio (Bergamo). I suoi problemi di salute lo costrinsero a ridurre gli impegni e a risparmiarsi un po'. Era anche amministratore della rivista "Africa", periodico bimestrale dei Padri Bianchi. Continuò ad interessarsi dei Ruandesi ai quali spediva medicine e prodotti di prima necessità. Negli ultimi tempi seguì alcune religiose burundesi venute in Italia per imparare l'uso della tipografia a Milano. Uomo colto e discreto, Padre Milone stringeva facilmente amicizia. Era di carattere gioviale, con un pizzico d'umorismo tipicamente piemontese, molto attento alle necessità dei fedeli. Nel mese di agosto del 1990 fu colpito da un infarto che lo costrinse a un mese di ospedale e a tre settimane di riposo. Nonostante le cure, non si riprese completamente. Il 27 dicembre, a Milano, Padre Francesco fermò la sua auto, poi si accasciò sul volante. Morì così all'età di sessantatré anni. Fu sepolto a Viù, nella tomba di famiglia. Per tutta la sua vita, rimase molto attaccato al suo paese natale. Non dimenticò mai la parlata locale francoprovenzale. Ricordava termini e modi di pronunciare usate in passato e ormai caduti in disuso. Li utilizzò per esprimere tematiche religiose ed elevate nelle sue varie poesie scritte nel patois francoprovenzale di Viù, composte a partire dal finire del 1986. Aveva anche elaborato in modo autonomo un sistema di trascrizione fonetica che, a suo avviso, era di agevole lettura e allo stesso tempo rendeva meglio le particolarità della pronuncia.
Padre Francesco Milone
Ricordo di padre Francesco
Cristina Soffietti Fornelli

Improvvisamente, in silenzio, un grande amico ci ha lasciati; padre Francesco non si è smentito nemmeno nel momento supremo del trapasso; il suo modo di fare è sempre stato quello: silenzioso, discreto, restio a disturbare. Lascia un vuoto grande, quanto grande è stato il posto che ha avuto nel cuore dei suoi amici e in tutto Viù. Tutti abbiamo ricordi gradevoli di lui: il suo affetto fraterno nel salutare tutti e tutti nel linguaggio a loro più congeniale, in viucese, in piemontese o in italiano, la sua arguzia nelle espressioni bonariamente scherzose e principalmente le funzioni devotissime che presiedeva e le sue prediche che mai dimenticheremo: aveva un modo tutto suo di annunciare il Vangelo, facendolo sembrare ogni volta meravigliosamente nuovo e incisivo. Tutti lo ricordiamo come era ultimamente; io vorrei invece ricordarlo in modo particolare nei primi tempi in cui l'ho conosciuto. Essendo solo di pochi anni più giovane di lui, lo ricordo ragazzino dolce e sensibile che soventissimo ci dirigeva in un gioco tutto suo, sempre quello, che in effetti per lui non fu mai un trastullo ma l'inizio velato di un ministero che già allora sognava: faceva il prete! Nei giorni di fiera convinceva con dolce insistenza la sua buona mamma, Lena, a comprargli degli scampoli di stoffa di ogni colore... "liturgico", con i quali si fabbricava stole e pianete che poi indossava con solennità e ci guidava, noi, "pie donne" di pochi anni, in funzioni religiose e in processioni in cui usava, come ostensorio, un battipanni ornato di lustrini. E le sue prediche! Pur nella sua ingenuità di bambino, si impegnava, per la verità con molta efficacia, a ripetere quanto sentiva dal Vicario don Manassero, suo esempio e sostegno morale e spirituale; e guai a distrarsi! Diceva sempre: "da grande voglio fare il prete, ma non un prete comune, un prete speciale".
Nella sua inesperienza usava espressioni infantili per intendere che non voleva essere un sacerdote diocesano ma un missionario. Sentiva urgere dentro di sé il bisogno di fare del bene a chi non conosceva nulla e non possedeva nulla. Con grande generosità (era l'unico figlio maschio!) Renzo e Lena, i suoi genitori, ottimi cristiani, compresero la vocazione e l'accettarono ed egli iniziò i suoi studi e fu mandato dai superiori nel Seminario di Giaveno. Nonostante avesse subito forti pressioni in senso diverso, specialmente perché era di costituzione delicata, riuscì finalmente ad entrare nella congregazione dei Padri Bianchi d'Africa e divenne Sacerdote Missionario com'era suo ardente desiderio. Trascorse molti anni in Africa, nel Burundi, sia come novizio che come sacerdote, e quando tornava a casa in visita, non parlava che dei suoi amati moretti; rimaneva però sempre vicino col cuore al suo paese, accogliendo le lettere di parenti e amici col cuore colmo di gioia e leggendo assiduamente giornali italiani cui amici generosi lo avevano abbonato. Quando tornò in Italia fu per parecchi anni a Ciriè presso l'ospedaletto del Rosario; quando la casa di Ciriè fu chiusa, cosa che gli provocò molto dolore, si trasferì a Treviglio. Ma Viù gli era sempre nel cuore: ogni volta che gli era possibile, saliva quassù e godeva dell'affetto che trovava tra i suoi compaesani. Fu il primo e per ora unico poeta viucese e tra le altre sue opere mi ha incantato il poemetto "La noit 'd Natal" e mi ha commosso "Davonti a la Pietà 'd Michelongel" . Ora ci ha lasciati; mi commuove il pensiero che questo grande evangelizzatore abbia iniziato la sua vera Vita nella casa del Padre il giorno 27 dicembre, festa di San Giovanni Evangelista. E mi sembra di vedere Padre Francesco che, col suo sorriso buono e affabilmente arguto, ci guarda mentre ci arrabattiamo nelle nostre faccende quotidiane e ci dice, come in una sua poesia: La Pruvidensi a ji grando!

Dicembre 1990

(ndr. Ricordo scritto in occasione della sua morte da una coetanea viucese e pubblicato sul Bollettino parrocchiale di Viù).

Padre Francesco Milone
Padre Francesco Milone
Padre Francesco Milone
Padre Francesco Milone
Padre Francesco Milone
Padre Francesco Milone

La Società Storica delle Valli di Lanzo ha dedicato a Padre Francesco Milone il volume "Ma antan ch'i ciciarun lu ten u passe. Poesie nella Viù".

Padre Francesco Milone

LE POESIE DI PADRE FRANCESCO MILONE

  • La noit 'd Natal
    La noit 'd Natal

    Lu voisu che Gesü u duvet nasse,
    che fret a faset mai, sian ant l'invern,
    lu ciel u jere 'd piump, a vulet noivre,
    lu ginic u gavave fronc lu fià
    a sti duì pôvru c'u marciovvu ansembiu,
    tirandse per la mon cumme 'd magnà.

    L'asu, pôvru cô chiou, ma piü pasient,
    u viet gnon l'euro c'a füsse finiji,
    u sungiovve 'n pö 'd fen e d'ese a susto,
    pudoj mingijo e fare na dürmiji.

    Lu spu u tinet la bestio a la cavossi,
    ma t' savet propi gnon s'u la tiriovve
    o s'a jer' l'asu da dré c'u lu pussave.
    Li pas 'd l'un cumme li pas 'd l'autru,
    mentre la noit an silensiu a calave,
    u s'fasun sempre, sempre 'n pô piü chiort.

    La spuso, na fijotto 'd disset an,
    a faset propi gravà moc a guernalo,
    a s'puntalave au bras 'd sun bel mariù,
    anlüpataji ant üno siarpo 'd lano,
    c'a duvet ese ancur calo 'd suo nôno,
    e aussiovve a stent li piò per tinì dré
    a j'autri duì che 'n pô piü vittu u alavu.

    A jer' lu prim Natal, puden bin dilu,
    u l'on anventà lēu, per ese unest;
    nu, jen moc anventà le stoile 'd carto,
    e le baline 'd vedo culuraje
    c'u pendu e c'u sberlüsu ansimmo au pin,
    e la naj finto e le ciandoile vere,
    e li nastri d'argion e li fì d'or
    c'u gruppu regal beli e panatun;

    c'u nu gruppu lu chēur finno a strenghialu,
    ch'u nu stuppu j'uvej finno a sburgnolli,
    ch'u nu ciücciu lu sonc per fanu stcìjo,
    ch'u nu gavu l'amur per fanu 'd pero,
    ch'u nu rendu bin pés che li Giüdei.

    Ma antan ch'i ciaciaren lu ten u passe,
    la noit a s'avisinne chiotto chiotto,
    li nosti pelegrin, rivà a Betlemme,
    an Piasi Grando u cercu na lucondo.

    U cersu 'ncurro per la Cuntrà Stroito,
    su per vio Rummo, finno an Piasi d'Zeure;
    na stonsio u cercu moc, senso pretoise,
    per pudoi ripusà trai o catr'ēure.

    Per ese cô li primmi a presentàse
    A l'Ufisi Cümünal l'andmon matin,
    dunà num e cugnum au Censimon,
    mingijo 'n bucun 'd pon, s'a vaj tut bin.

    E, poino, che sta storio a jì finiji,
    i ciapren l'asu al bune e sempre a piò,
    sperant che lu bel ten u nu cumpagne,
    riprende la vì groso e turnà a cò.

    Ma gnun u vô ricevli, penso moc!
    S'a vaj bin u jon gnonco 'n sô 'n sacôci.
    Lu pôvru, onche pulit, u spüsse sempre,
    mentre lu sgur paciard u spüsse 'd menu.

    Li bijot da millo, per bin sporc c'u cèciu,
    u smojju prüfumà cumme le rēuse;
    tuiti u li queju, tuiti u slungiu 'l mon.
    Son ch'it pô gnon cità cun li bardòn!!

    Li nosti duì spusin senso na liro
    U's veju tuiti j'üss sbatù slu morru.
    U saron sgnur d'amur, bütenlu pürro,
    ma l'amur t' lu sin gnon sunà 'n sacoci,
    t' pö pa pagà lu pon cun li basin!!

    "Dunense 'n pö da fare, a j'unse e meso,
    Giüsep u di a la spuso anfreiduliji,
    cerchen au pion dli prà, s'im na ricordu
    j'ai viü na stalo voido e dirucaji,
    cun finno an din na vaci, o 'n bēu c'a füsse.
    T'li pense, che furtünno a ritruvalo;
    bütto c'a neje, i sen almenu a susto".

    E u von, e u giru, e u cercu fin c'u trēuvu:
    a j'ere gnon na villo, gnonco 'n chalé,
    ma moc na trüno froido, tutto 'd pero;
    sta pôvro gion, speren c'a sece assè!

    La vaci c'a rümiave ant'ün cantun
    A gire andré la toisto per guernali,
    cun doì uvej grò c'u büttu cumpassiun,
    a 's dirì casi c'a vô salütali.

    E can che li ciuché 'd tutto Betlemme
    u jon tacà a sunà la mesanoit,
    na stoilo sla cabano a s'ò pusaji,
    na lücce da sburgnìjo a s'ò vistciojji,
    lu mundu u s'ò fermà meso minütto,
    per far savoj a tuiti c'a jer'nà
    lu Salvatur che dau dilüviu an sai,
    li secul u spetavu cun impasjinsi.

    Ventave sintì j'Ongel c'u ciantavu,
    ventave vé j'Arcongel c'u balavu,
    ventave guernà an sü, l'Eternu Pare,
    che dau piü bel pugēul dlu Paradis
    u se spurset per gnon perde la seno
    d'ün om e 'd na fümelo, 'd n'asu e 'n bēu,
    c'u cercu de stciaudà cumme c'u pòlu,
    su Fij, padrun dlu mundu, pòvru magnà,
    tut termulant 'd fret s'ün pugn 'd paji,
    calà dau ciel an tero per pietà.

    E lu miracul u 'ncaminne uvrò,
    da tutte 'l bajte li pastur u calu,
    per vinì a vé son c'a jò capità,
    per vinì a vé la stoilo c'a brilave,
    per vinì a vé stu fiò c'u li stciaudave,
    per vé 'n magnà c'u dior an bras a mamo,
    tütün me j'autri e pürro sì divers,
    c'u so piurà, ma c'u so cò surire,
    c'u jò fam, c'u jò fret, c'u vò dürmì,
    lu Creatur c'u s'ò fait creatürro!

    "Pastur, da 'ndu ch'it vin?" "Vegnu da Lòimio,
    moi da l' Madloine, nu sen dla Mundrossi,
    nu calen giü dau Tôinu, nu dal-s'Ayre,
    moi sé dla Barmo, e nu sen 'd Praculot".
    Da j'Üdrì, da la Vneri e Salvagnenc,
    da li Turnot, finno da la Crucheri,
    da Pissinejo e da lu Tubarghenc,
    a smojje c'a s' desvojje na fürmjéri,
    u cuorru, u pussu, tuiti u volu vé,
    tuiti u volu guernà stu magnarott,
    bel cumme lu suloj, duss cumm'l'amel,
    c'u j pojno nà, ma per cambià lu mundu.

    Tunin, Pinoto, Vigiu, Carulino.
    Gnasin u jò duì pum, Peru na tummo.
    Na fasinno de scòt, na tòlo d'ōeli,
    na garbinà d'ampaj per c'u se stciaude,
    meso dusoino d'ēu, na butto d' lait.
    Majnoto dau Mulà a jì vinuvo a piò
    cun ün bel tôc 'd biorru e na sautissi.

    "Lasiomme moc pasà, a dì Vigino,
    j'ai propi presso, j'ai lu lait slu fiò"
    e a porte 'n bel galot e na galino.
    Cali 'd Piasi, c'u sun piü rafinà,
    o li portu na scüffio, na vestino,
    'n chilu 'd purtigal, na fotto 'd carn.
    Cun tanto gion c'a suffie e tan d'amur,
    la pôvro stalo, finno a j'or geilaji,
    a smojj 'na cò cun li termusifun.

    Ma s'it guerne d'antuorn, a smojje drôlu,
    it vè moc tutte machine chitive,
    le grôse cilindraje u li sun gnon,
    cumme d'incant u sun tutte sparije,
    percoi d'invern au mar li sgnur u von.

    E pôi, 't pô pa pretende c'u s'distuorbu,
    c'u vegnu a vé 'n magnà mes patanü,
    cun gnente da dunà? Nu sen per prende!
    E pôi, toi t'in capoj, 'n pô 'd bun sens,
    't vô pa chi sporcu la carusserio,
    cun le brolle dle ciovre e 'l büse 'd vaci,
    giü per sta rivo? Ma, fame gnon rire!
    I j'ai na dignità da rispetà!

    Nusgnur: i t'ò fait mal a nasse pôvru,
    it fusse nà cun lu librot d'j assogn,
    u t'avriu purtà tuiti 'n catadēujo,
    ma toi t'ò vulü nasse senso gnente,
    e 't finirò s'na Crēus tut dispujò.

    La lession ch'it t'nu lasse a vô mustranu
    c'a vente gnon moc cuorre dré dli sô.
    L'argion u fai la guerro, u diùn an Fronsi,
    e nu vulen la pas, almenu 'n pô.

    A ji propi voj che moc l'amur u cuinte,
    fanlu capì da bin, toi ch'i t'lu so;
    ambroncnu per la mon, senso mulanu,
    fin ch'i sen gnon rivà cun toi a cò.

    Fanu capì che toi 't cuntinue a nasse
    An mes a noste cò, tuiti li giuorn,
    fin c'a jò 'n disgrasià c'u n'ò da monco,
    fin c'a jò 'n pôvro c'u nu ton la mon.

    Fin c'a jò 'n ôm c'u jò gnon da mingijo,
    fin c'a jò chi c'a piēure e a n'an pô piü,
    Betlemme u ji pi gnon an Tero Santo,
    pi gnon an Palestino,……ma u jì a Viü!


    (Natale 1986)
    La notte di Natale

    La notte in cui Gesù doveva nascere,
    che gran freddo faceva. Era l'inverno,
    il cielo era di piombo, voleva nevicare,
    la tramontana toglieva quasi il respiro
    a questi due poveri che camminavano insieme,
    tenendosi per mano come bambini.

    L'asino, anch'esso povero, ma più paziente,
    non vedeva l'ora che fosse finita,
    sognava un pugno di fieno e una tettoia,
    poter mangiare e fare una dormita.

    Lo sposo teneva l'animale per la cavezza,
    ma non sapevi troppo se era lui che tirava
    o se era l'asino che da dietro spingeva.
    I passi dell'uno come i passi dell'altro,
    mentre la notte in silenzio scendeva,
    si facevano sempre, sempre un po' più corti.

    La sposa, una ragazzina di diciassette anni,
    destava gran pena al solo vederla,
    s'aggrappava al braccio del suo sposino,
    avviluppata in uno scialle di lana,
    probabilmente ancora di sua nonna,
    e alzava a stento i piedi per star dietro
    agli altri due che più in fretta andavano.

    Era il primo Natale, possiamo proprio dirlo,
    sono stati loro ad inventarlo, per essere onesti.
    Noi abbiamo solo inventato le stelle di carta
    e le palline di vetro colorate
    che pendono luccicando dall'albero,
    e la neve finta e le candeline vere,
    e i nastri d'argento e i fili d'oro,
    che avvolgono i bei regali e i panettoni;

    ma che ci avviluppano anche il cuore fino a soffocarlo,
    che ci chiudono gli occhi fino ad accecarli,
    che ci succhiano il sangue fino a farci inaridire,
    che ci tolgono l'amore fino a trasformarci in pietre,
    che ci rendono peggiori dei Giudei!

    Ma mentre chiacchieriamo il tempo passa,
    la notte s'avvicina cheta cheta,
    i nostri pellegrini giunti a Betlemme,
    sulla Gran Piazza cercano una locanda.

    Cercano ancora per la Contrada Stretta,
    su per via Roma, fino alla Piazza Superiore;
    cercano soltanto una camera senza pretese,
    per poter riposare tre o quattro ore,

    ed essere così i primi a presentarsi
    all'Ufficio Comunale l'indomani mattina,
    dare il loro nome e cognome al Censimento,
    mangiare un pezzo di pane, se tutto va bene.

    E appena questa storia sarà finita,
    riprenderemo l'asinello e, sempre a piedi,
    sperando che il bel tempo ci accompagni,
    rifaremo lo stradone e torneremo a casa.

    Ma nessuno vuol riceverli, pensa un po',
    non devono avere neanche un soldo in tasca.
    Il povero, anche se è pulito, puzza sempre,
    mentre il ricco, anche sporco, puzza meno.

    I biglietti da mille, per luridi che siano,
    sembran profumati come rose;
    li colgon tutti; tutti allungano le mani.
    Cosa puoi mai comprare con il denaro!

    I nostri due sposini senza una lira
    si vedono tutti gli usci sbattuti in faccia.
    Saranno ricchi d'amore, ammettiamolo pure,
    ma l'amore non lo senti tintinnare in tasca,
    il pane non si paga con i baci!

    "Diamoci da fare, sono le undici e mezza,
    dice Giuseppe alla sposa intirizzita,
    scendiamo giù a cercar nei prati: se ben ricordo
    ho visto una stalla vuota e diroccata
    in cui c'era anche una mucca, o un bue che fosse,
    fortunati noi se la ritroviamo;
    anche se nevica, abbiamo almeno un riparo".

    E vanno e girano e cercano, finché trovano:
    non era certo una villa e neppure uno chalet,
    ma solo una grotta fredda, tutta di pietra.
    questa povera gente dovrà accontentarsene!

    La mucca che ruminava in un angolo
    volge indietro la testa a guardarli,
    con due occhioni che fanno compassione,
    sembra quasi che voglia salutarli.

    E quando i campanili di tutta Betlemme
    iniziano a suonare la mezzanotte,
    una stella viene a posarsi sulla capanna,
    mentre una luce accecante si accende,
    il mondo si è fermato mezzo minuto
    per far sapere a tutti che era nato
    il Salvatore che dal diluvio in poi
    i secoli aspettavano con impazienza.

    Bisognava sentire gli Angeli a cantare,
    bisognava veder gli Arcangeli danzare,
    bisognava guardare in su, l'Eterno Padre,
    che dal più bel balcone del Paradiso
    si sporgeva per non perdere la scena
    d'un uomo, d'una donna, un asino e un bue,
    che cercano di scaldare come possono
    suo Figlio, padrone del mondo, ora povero piccolo,
    tutto tremante di freddo su un pugno di paglia,
    sceso dal cielo in terra per pietà.

    E il miracolo incomincia adesso:
    da tutte le baite i pastori scendono
    per venire a vedere ciò che è successo,
    per venire a vedere la stella che brillava,
    per venire a vedere questo fuoco che li scaldava,
    per veder un bimbo che dorme in braccio a mamma,
    uguale agli altri, eppure così diverso,
    che sa piangere, ma che sa anche sorridere,
    che ha fame, che ha freddo, che vuole dormire,
    il Creatore che si è fatto creatura!

    "Pastore, da dove vieni?" "Vengo da Lemie!
    Io dalle Maddalene, noi siam della Mondrezza,
    noi scendiamo dal Toino, e noi dagli Aires,
    io sono della Balma, e noi di Pracoletto".
    Dagli Oldrì, dalla Venera e dal Salvagnengo,
    dai Tornetti, e persin dalla Crochera,
    da Pessinea e dal Tuberghengo,
    par quasi che si sia destato un formicaio;
    corrono, si spingono, tutti vogliono vedere,
    tutti vogliono ammirare sto bambinello,
    bello come il sole, dolce come il miele,
    ch'è appena nato….ma per cambiare il mondo.

    Tonino, Giuseppina, Gigetto e Carolina;
    Ignazio porta due mele, Pietro un formaggio.
    Una fascina di sterpi, una lattina d'olio,
    una gerla di foglie secche perché stia caldo,
    mezza dozzina d'uova, una bottiglia di latte.
    Marietta del Molar è scesa a piedi,
    con un bel pezzo di burro e una salsiccia.

    "Fatemi un po' passar, dice Luigina,
    ho tanta fretta, ho il latte ancor sul fuoco!"
    e porta un bel galletto e una gallina.
    Quei del Capoluogo, che son più raffinati,
    portano una cuffietta, un vestitino,
    un chilo d'arance, una fettina di carne.
    Con tanta gente che soffia e tanto amore,
    la povera stalla, fino a ieri ghiacciata,
    sembra una casa coi termosifoni!

    Ma se ti guardi attorno, cosa strana,
    vedi soltanto macchine piccine;
    le grosse cilindrate non le vedi,
    come d'incanto tutte son sparite;
    d'inverno al mare va la gente ricca!

    E poi, non pretenderai che si disturbino,
    per vedere un bambino mezzo nudo,
    con nulla da dare! Noi siam per prendere!
    E poi mi capirai, se hai buon senso,
    vuoi farmi sporcare la carrozzeria
    con gli escrementi delle capre e lo sterco di vacca,
    per quella ripa? Ma non farmi ridere!
    Ho una mia dignità da rispettare!

    Signore: hai fatto male a nascer povero.
    Se fossi nato con un carnet d'assegni,
    tutti t'avrebber preso a cavalluccio.
    Ma tu hai voluto nascer senza nulla,
    e finirai spogliato sulla croce!

    La lezione che ci dai vuole insegnarci
    a non correre solo dietro ai soldi.
    "Il denaro fa la guerra!" di dice in Francia,
    e noi vogliam la pace, almeno un poco.

    È vero, si, che sol l'amore importa,
    faccelo ben capir tu che lo sai;
    afferraci per mano, non mollarci
    finché non siamo giunti con te a casa.

    Facci capire che continui a nascere
    tra queste nostre case tutti i giorni,
    finché c'è un disgraziato che abbisogna,
    finché c'è un povero che tende la mano.

    Finché c'è chi non ha di che mangiare,
    uno che piange e che non ne può più,
    non cercar più Betlemme in Terra Santa,
    non è più in Palestina,….ma è a Viù!
    Versione in lingua italiana del poemetto "La nôit ‘d Natal" scritto in viucese e tradotto dallo stesso autore, il quale si scusa di aver dovuto sacrificare, per renderlo comprensibile, assonanze, rime e cadenze degli endecasillabi del testo originale (FM).
    La topografia del concentrico e dei dintorni di Viù vengono riferiti a Betlemme.
  • Davonti a la pietà d' Michelongel
    Davonti a la pietà d' Michelongel

    La ciôco a sune ancurro - li bôt ed lu divendru,
    lu divendru piü trist - c'a li sece 'nt la stôrio,
    lu divendru piü sant - c'a li sece sta au mundu,
    lu giuorn ed la tragedio, - dla gran disperasiun,
    dla grand'incumprensiun - d'ün mundu c'u s'arvire
    cuntro lu Creatur. - E tun Fij, tun amur,
    u j'ò pagà per tuiti - cumme u j'avise tort.

    Tun Fij, Mare, u jì mort; - da sta figurro d'marmu
    u t' guerne senso vete, - u j'ò j'uveji destiss,
    u smojje casi dite - c'u pô pi gnon parlà.
    U dior an sli tué bras - d'ün sonnu senso fin,
    u s'desvojje pi gnon; - bionc cumme na ciandoilo
    d'siri trasparento, - na ciandoilo destisso,
    che gnune fiame o fiò - u pudron mai vistcìjo,
    che gnun suffi d'amur - u faron più rinasse.

    Tun Fij, Mare, u jì mort; - it pô moc piü piüralu,
    lu fij ch'i t'o purtà, - lu sul ch'i t'o anlevà,
    chiou, lu piü bel magnà - c'a li sece sta au mundu,
    cun gran delicatossi - u jì sta distacà
    d'ansimmo de sta Crēus - c'a domine severo
    la puinto dlu Calvari. - U t'l'on rendü,…ma mort!

    Murdü da lu rimors - j'amis u sun turnà.
    Dopu c'u l'on tradì, - c'u l'on abandunà,
    senso bugìjo 'n dai, - an mon a li nemis,
    uvrò c'u l'on viü mort - u j'on riproi curagiu,
    e u volu riparà - la gran vigliacherìo
    d'avoilu lassiò sul - a mürì patanü
    an mes a duì ladrun, - anchiuvà 'ns üno Crēus,
    senso ne strass adoss, - sutto j'uveji 'd suo mare.

    Ant ün linsuel nēu 'd trinco - u posu lu Corp Sant.
    Le sante done an piēur - u li fon la tualeto
    c'a s'deu fasse a li mort - primmo dla sepultürro.
    Cun l'ōeli e cun la mirro - u lasu le sue piaghe,
    u puòidu lu sonc - c'u jò versà per nu.
    Giusep d'Arimatea - cun cat o sinc amis
    u pose cun amur - stu corp bin martürià
    sla pero duro e froido - dla suo tumbo 'd famijji.

    La noit a cale vittu - tuiti u j'on presso e u cuorru
    per gnon ese an ritard - propi lu voisu 'd Pasquo.
    La pero sôto e riundo - c'a jere ant ün cantun,
    cun sfors e cun südur - u fon rutulà vittu
    davonti a la purtino - primmo d'alasno a cò.

    Inüttil de sterminalu - sen arivà a la fin!
    La fin d'üno speronsi - la fin d'ün'illüsiun.
    "J'avian sempa criü, - j'avian sempa sperà.
    U varisset li povru, - u arciamave an vitto
    finno li magnà mort. - U faset vé li borgnu,
    lu müt u ciaciarave, - lu sôp u alave fret,
    lu lebreus u s'guernave - cunton d'ese varì.
    Lu pon u nu dunave - fin ch'i n'avian assè,
    e tuiti u na mingiovvu, - e ancurro ai na restave".
    Tut a jì uvrò finì. - Dré de sta porto d'pero
    lassen ogni speronsi, - turnensne a nostro cò
    cun la rabio ant lu coeur - e lu mural a tero.

    Chi c'a l'avrì mai dit. - chi c'a pudrì mai croire,
    che dopu tanti e beli - miracul ch'i jen viü,
    u s'sarì fait masìo - senso drüvì la bucci,
    casi cumme 'n agnel - c'u portu au masatôiu.
    Basto! Parlen pi gnon. - La farso a jì finiji;
    onche se au funs dlu coeur - la poino a jì satiji.

    Ma, can che tut a smiovve - finì, tut ancaminne.
    La pero a vole viò, - la vitto a tuorne a bate,
    la mort a tuorne a vivre, - a tuorne la speronsi
    c'a smiovve giò destissi. - La tumbo jor geilaji,
    a s'o ampiniji 'd lücce. - Lu corp c'u ripusave
    u j'o riproi la vitto. - Mare, tun Fij u vì!
    Gesü, nosto speronsi, - u j'o vinciü la mort.

    La nôit a tuorne a lüse, - la pôi a jì spariji,
    lu cōeur u bà piü vittu, - la vitto a j'gnon finiji.
    Vittu, suete le lacrime - c'u sun diventà 'd perle,
    stcioncte dau cōeur le lame, - percoi tun Fij u t'guerne.
    Mamo, tun bel magnà, - lu Fij c'u t'on masiò,
    per chi t'o tan piürà, - en spalancant la tumbo,
    cumme 'n suloi c'u s'ause, - u ji risusità!


    Pasqua 1987
    Davanti alla Pietà di Michelangelo
    Davanti alla "Pietà" di Michelangelo

    La campana suona ancora - i rintocchi del venerdì,
    il venerdì più triste - che ci sia nella storia,
    il venerdì più santo - che ci sia stato al mondo,
    giorno della tragedia - della gran disperazione,
    della grande incomprensione - d'un mondo che si rivolta
    contro il suo creatore. - E tuo Figlio, tuo amore,
    ha pagato per tutti - come se avesse torto.

    Madre, tuo Figlio è morto! - Da sto pezzo di marmo
    senza veder ti guarda, - gli occhi suoi sono spenti,
    pare quasi ti dica - che più non può parlare.
    Dorme sulle tue braccia - d'un sonno senza fine,
    né più si sveglierà; - bianco come candela
    di cera trasparente, - una candela spenta,
    che alcuna fiamma o fuoco - potran mai riaccendere,
    che alcun soffio d'amore - mai potrà far rinascere.

    Madre, tuo figlio è morto! - Ti resta sol che piangerlo.
    Il figlio che hai portato, - il sol ch'hai allevato,
    il solo bimbo bello - che mai ci fosse al mondo,
    con gran delicatezza - è stato poi staccato
    di sopra a questa Croce - che domina severa
    la cima del Calvario. - Te l'han reso,…ma morto!

    Sospinti del rimorso - gli amici son tornati.
    Dopo averlo tradito - e pure abbandonato,
    senza muovere un dito, - in mano ai suoi nemici,
    or che lo vedon morto - riprendono coraggio,
    e voglion riparare - la gran vigliaccheria
    d'averlo lasciato solo - a morir tutto nudo
    in mezzo a due ladroni - sopra una dura croce,
    senza uno straccio addosso, - sotto gli occhi di mamma.

    In un lenzuolo nuovo - posano il Corpo Santo.
    Le sante donne in pianto - gli fanno la toeletta
    che deve farsi ai morti - prima di seppellirli.
    Con l'olio e con la mirra - lavano le sue piaghe,
    asciugano quel sangue - che ha versato per noi.
    Giuseppe d'Arimatea - con quattro o cinque amici
    depone con amore - il corpo martoriato
    su pietra dura e fredda - della tomba di famiglia.

    La notte scende presto, - tutti han premura e corrono,
    per non dover far tardi - quella sera di Pasqua.
    La pietra greve e tonda - che in angolo giaceva,
    con sforzi e con sudore - fan rotolare in fretta
    davanti alla porticina, - prima di rincasare.

    È inutile celarlo, - giunti siamo alla fine:
    fine d'una speranza, - fine d'un'illusione.
    "Sempre avevam creduto, - sempre avevam sperato.
    I poveri guariva, - in vita richiamava
    persino i bimbi morti. - Veder faceva i ciechi,
    il muto chiacchierava, - lo zoppo andava dritto,
    il lebbroso si accudiva - felice d'esser guarito.
    Il pane ci dava - fino che bastava,
    ne mangiavano tutti - e ancora ne restava".
    Ormai tutto è finito. - Dietro a questa porta di pietra
    lasciamo ogni speranza, - torniamocene a casa
    con la rabbia nel cuore - ed il morale a terra.

    Chi l'avrebbe mai detto, - che mai creder poteva,
    che dopo tanti e bei - miracol ch'abbiam visti,
    si sarebbe fatto ammazzare - senza aprire la bocca,
    quasi come un agnello - portato al mattatoio.
    Basta! Lasciamo stare. - La farsa è ormai finita;
    anche se in fondo al cuore - la pena è assai sentita.

    Ma, quando tutto pareva - finire, tutto incomincia.
    La pietra vola vai, - riprende a batter la vita,
    la morte ritorna a vivere, - ritorna la speranza
    che ormai pareva spenta. - La tomba, ieri gelida,
    s'è riempita di luce. - Il corpo che riposava
    ha ripreso vita. - Madre, tuo Figlio vive!
    Gesù nostra speranza - ha vinto anche la morte.

    Torna a brillar la notte, - la paura è svanita,
    il cuore batte più in fretta, - la vita non è finita.
    Presto, asciuga le lacrime; - son diventate perle.
    Strappa dal cuor le spade, - ché il Figlio tuo ti guarda.
    Mamma, il tuo bel bambino, - quello che t'hanno ucciso,
    per cui tanto piangesti, - la tomba ha spalancato,
    e quale sol nascente - oggi è risuscitato!
    Tentativo mal riuscito di versione in italiano dello stesso poemetto scritto in viucese. Me ne scuso con i lettori e li rimando a leggersi con pazienza il testo originale, dove ritroveranno il ritmo e la cadenza dei versi, che purtroppo in una versione vengono sovente sacrificati.
    Spero sia rimasto almeno il pensiero! (FM)
    Davanti alla Pietà di Michelangelo
  • Lassen sungio li povru
    Lassen sungio li povru

    Sgiai-Gabre-Mariam
    U ji setà tut sul
    a l'umbro dlu tucùl
    e u baje pion, ed fam.

    An filo, a lu suloj
    le fijje dli Giam-Giam,
    lusente cumme aram,
    ciantant u passu . A jì vòj!

    Che buneur gro a sarie,
    j'avisu carchi so,
    na cubio i na citrìo.

    E u sunge e u ji cunton
    ed pi gnon durmì sul
    la nôit an tlu tucùl.
    Lasciamo sognare i poveri

    Sgiai-Gabre-Mariàm
    È seduto tutto soloa
    all'ombra del tucùl
    e sbadiglia piano, di fame.

    In fila, al sole
    le figlie dei Giam-Giam,
    lucenti come rame,
    cantando passano. E' vero!

    Che fortuna grossa sarebbe,
    se avessi qualche soldo,
    una coppia ne comprerei.

    E sogna ed è contento
    di non dormire più solo
    la notte nel tucùl.
    Versione italiana di Claudio Sannazzaro
  • Fede d'alpin
    Fede d'alpin

    Duì pass fòro 'd Viù, 'n puinto 'd na rivo,
    ch'a 't fai suffià, s'i t'o pi gnon vint'an,
    t'ausse j'uvej e cumme per incant
    i't vè carcoso ch'a slarge lu cheur.

    'n bòt a j'ere moch 'n mucc ëd pere
    an mess a 'l runse, sta ciapelo vieji;
    gnun ch'u 's degnasse 'd fare na preghiero,
    gnun ch'u 's fermasse per 'n sogn ed crēus.

    Urò 't vè na ciapelo, na gesiotto,
    tutto rifaito, tutto pituraji,
    cun na ciucotto neuvo ch'a tintinne,
    per dire a tuiti: "S'è tuorno rinaji".

    U sun li nostri Alpin, le "penne nere".
    Ch'u j'on tutt fait cun tanti sacrifissi,
    per ch'a j'abbie na co la Madunino,
    la mare dli "Caduti", mamo 'd tuiti.


    25 marzo 1989
    Cappello Alpino
    Fede d'alpino

    Due passi sopra Viù, in cima ad un'erta,
    che fa ansimar, se non hai più vent'anni,
    sollevi gli occhi e come per incanto
    vedi una cosa che t'allarga il cuore.

    Un tempo era solo un mucchio di pietre
    in mezzo ai rovi, sta cappella vecchia;
    nessun che si degnasse di fare una preghiera,
    nessuno che si fermasse per un segno di croce.

    Adesso vedi una cappella, una chiesetta,
    tutta rifatta, tutta ridipinta,
    con una campanella che tintinna,
    per dire a tutti: "Eccomi rinata!".

    Sono stati i nostri Alpini, le "penne nere",
    che han fatto tutto con gran sacrificio,
    per dare una casetta alla Madonna,
    la Madre dei Caduti, Mamma di tutti.
    Cappello Alpino con corda e pistocco
  • Natal sutto la naj
    Natal sutto la naj

    A ne'! Lu nas sgacà cuntro li vedo
    gejlà dla fnoistro, la matin d' Natal,
    i guernu calà giù la farfalero
    dli parpajun ch'u ceju cumme d' fôje.

    Fôje d'invern, che 'nvece ed despujolle
    u viostu l' pionte cun na côto bjinci,
    da fano d' masche. Mentre la bjaleri
    chiotto a riflet lu ghiass ch'u la cuverte.

    'N passarôt tutt sbürdì u sautele
    an mess a tanto naj ch'a giojle l' piòte
    e u cerche disperà carche fervaje
    per gnon mürì co d' fam; a s' mior giò d' fret.

    La Pruvidensi aj grando, i pensu, e pregu
    ch'u treuve na briôto, na granino:
    "Aj moc 'n passarôt, lu sai, Nussgnur,
    ma u cionte cô per Toi; lasslu ch'u vive!".

    (1989)
    Natale sotto la neve

    Nevica! Col naso schiacciato contro i vetri
    gelidi della finestra, il mattino di Natale,
    contemplo il turbinio che scende
    dei farfalloni che cadon come foglie.

    Foglie d'inverno, che invece di spogliarle
    veston le piante d'una coltre bianca,
    quali fantasmi, intanto che il ruscello
    tacito, riflette il ghiaccio che lo copre.

    Un passero saltella impaurito
    in tanta neve che gela le zampine
    e disperato cerca qualche resto,
    per non morir di fame, ché già di freddo muore.

    La Provvidenza è grande, penso, e prego
    che trovi un bricciolino, una granella:
    «È solo un passerotto, è ver, Signore,
    ma canta anche per Te; lascia che viva!».
    Versione italiana di Claudio Sannazzaro
  • AVVERTENZE PER LA LETTURA
    Per amore di logica e per non complicare le cose semplici, tutte le lettere (vocali e consonanti) conservano lo stesso suono che già hanno in italiano. Questo renderà più agevole la lettura senza costringere a fare delle acrobazie mentali.
    I fonemi che non esistono in italiano ho cercato di esprimerli il più semplicemente possibile con un segno grafico.
    Avremo perciò:
    A - a = sempre suono "a": alà (andare), pagà (pagare), can (quando).
    E - e = sempre suono "e": prende (prendere), alen (andiamo).
    I - i = sempre suono "i"; chitì (piccolo).
    O - o = sempre suono "o" aperto: co (casa), soc (secco), fiò (fuoco), piò (piede), moc (solamente).
    Ô - ô = suono di "ô" chiuso: cô (anche), bôt (volta), sôt (pesante), nôit (notte), côit (cotto), scôt (rametti secchi).
    Provate a dire: a piò (a piedi) e a piô (piove), noterete la grandissima differenza di pronuncia tra i due "o", il primo aperto, il secondo chiuso.
    U - u = suono di "u" come in italiano: bun (buono), mun (mattone), sun (sono, suono, suo). Essendo questa lettera la più adoperata in viucese, mi sembra logico conservarle lo stesso suono che ha in italiano, mentre adopereremo una semplice dieresi "ü" per indicare la u francese.
    Ü - ü = suono di "u" francese o piemontese: mür (muro), dür (duro), cümün (comune), piü (più).
    Dirò quindi: rendü (reso), ma rendu (restituisco), le due "u" sono completamente diverse.
    J - j = suono particolare di "i" forte e prolungato, che si avvicina al suono "muillé" del francese. Fij (figlio), fijji (figlia), smojje (assomiglia), famijji (famiglia).
    Stc = suono particolare non esistente in italiano e che alcuni scrivono altrimenti, come s-c oppure s/c: stciancà (strappare), stcijo (seccare).
    La maggior parte dei nomi femminili in viucese terminano con il suono "o", quindi ho conservato la "o" anche nello scritto: mamo (mamma), papò (papà), viò (via), fijotto (ragazzina), altri la pensano diversamente: rispetto la loro opinione.
    Per i più esigenti e pignoli farò notare che anche la "ü" può avere due suoni leggermente diversi, ma che solo l'orecchio di un viucese riesce a percepire. Provatevi a pronunciare la frase: "mai viü a Viü" (mai visto a Viù) e noterete la differenza tra le due "ü".
    Ēu = suono particolare non esistente in italiano: chēur (cuore), bēu (bue), può anche essere scritto "ōe": ōeli (olio). Per evitare che si leggano le due lettere separate, ho scritto il dittongo "ēu" oppure "ōe" con un trattino al di sopra per indicare che vi è un suono solo.
    Scusate la pedanteria e consideratemi ugualmente vostro amico.

    Francesco Milone

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